Il giovane Ghianda si infilò indomito un dito nel naso alla ricerca di un pensiero perduto. Ma dopo molto cercare ne estrasse solo un piccolo appiccicoso incubo verde.
È una storia classica, inizia con una genesi, di un essere umano. In virtù delle dita opponibili e di un percorso scolastico decente apprende la scrittura e il verbo, non necessariamente in quest'ordine. Ma sulla sua strada incontra ben due professoresse che lo dissuadono dallo scrivere. C’è forse una motivazione più forte quando, in dote, si è pure bastian contrari? Nessuna, la penna galoppa a briglia sciolta attraverso praterie di carta, i tasti vengono pestati più di un pugile in un'orgia di ganci e montanti, senza pietà o sportività alcuna. E da questo tumulto rivoltoso nascono storie, più pesanti e caloriche di un romanzo in sei parole di Hemingway ma rapide da leggere e da bere, ci si mette meno del tempo necessario a sorseggiare un caffè, a ingurgitare un tramezzino o, ma solo in certi casi, per raggiungere un fugace orgasmo. Ma soprattutto, non fanno briciole, non macchiano e non hanno impatto su alcuna dieta.
Il signorotto partì d'estate a girovagare per luoghi comuni e verificare se davvero fosse vero che tutto il mondo è paese, a quei tempi ci si divertiva con niente. Per aprir bocca e togliere ogni dubbio si caricò di frasi fatte, avrebbe acquistato anche della felicità, ma i soldi non danno la felicità, così li impiegò per risolvere un po' di problemi. Appassionato d'arte, di tanto in tanto si fermava a dipingere qualche immagine retorica e, di quando in quando, dove una volta era tutta campagna, col retino andava a catturare qualche locuzione verbale per la sua collezione. Purtroppo non c'erano più le mezze stagioni e passò dalle mezze maniche al capotto. Avrebbe voluto tornare a casa dolce casa, che non era assolutamente un albergo. Partì saltando i fossi per lungo ma non era più quello di una volta, e si rialzò fradicio: non è il caldo era l'umidità, pensò. Il signorotto andò quindi a teatro, lo spettacolo cominciò così bene che fu subito a metà dell'opera; i
Il narratore aveva ricevuto in dono un aneddoto da un'altra persona, o dalla vita, poco importa. Era un aneddoto come pochi, colorato da toni cupi e catastrofici che mutavano diventando poi allegri e solari, alla prima annusata profumava di tensione, di luoghi chiusi e anche un poco di merda, ma dandogli tempo esplodeva in uno sbuffo di autoironia e lieto fine. Portandolo all'orecchio si sentiva un crescendo di archi e ottoni che culminava poi in assolo concitato di batteria, per finire nella spensierata strimpellata di un banjo. A tirarlo fuori così, al momento giusto e per un soldo, il narratore ci avrebbe vissuto per un bel pezzo. Ma decise di giocarsela diversamente. Lo nutrì per bene, l'aneddoto crebbe, prima lentamente e poi un po’ più veloce, al ritmo di un pettegolezzo sussurrato divenne, in men che non si dica, un'epopea. Il narratore lo analizzò da più angolazioni, si rese conto che ora era troppo grande, ed era divenuto informe. Lo mise a dieta, l'epopea